Ecco i vincitori della quinta edizione della borsa di studio di ESN Italia "Il Tuo Erasmus con ESN".

Vincono la borsa di studio da 500€:
- Agostinelli Alessia (Università di Bologna)
- Armellini Maddalena (Università degli studi di Pavia)
- D'Agosta Paolo (Politecnico di Milano)
- Di Bonaventura Giorgio (Università Politecnica delle Marche)
- Landini Chiara (Università di Bologna - polo didattico di Rimini)
- Lanza Chiara (Università degli studi di Torino)
- Macciò Matteo (Università degli studi di Genova)

 

Ricordiamo che La Borsa di Studio “Il Tuo Erasmus Con ESN” sarà erogata da ESN Italia a seguito dell’invio del documento di autocertificazione dell’effettivo soggiorno allegato al bando e del “Certificate of Arrival” rilasciato dall’Università ospitante.


Congratulazioni a tutti i vincitori!

 

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Alessia Agostinelli

 

Una 500 azzurra se ne sta in disparte in via Margutta mentre panni ormai asciutti pendono su di lei collegando palazzine adiacenti e sconosciute. Una donna non più giovane trasporta pesi e forse speranze perdute sulla lieve salita che la condurrà nella casa di sempre. Roma ha sempre il suo fascino. Io percorro Roma senza muovermi, e poi Madrid, Badapest e una spiaggia così esotica che mi distrae dal suo nome. All’aeroporto di Fiumicino la scala mobile mi mostra fugacemente il mondo attraverso grossi e felici cartelli pubblicitari, forse cercando di indovinare dove sia diretta e cosa mi lasci alle spalle.

Salutare casa e l’amore racchiuso in quelle mura è sempre un dolore, un’abitudine dura da prendere e dolce da vincere. Quando la cosa che lasci è Roma poi, è come tradirla due volte. Roma caput mundi, SPQR, Totti, il luppolone, le suore silenziose in viale Angelico che scorgo dall’autobus che ho atteso 43 minuti e poi Trastevere, la palma luminosa che sporge dall’attico più lussuoso si Lungotevere, gli spettacoli del mago “Guarda” a Piazza Navona, i manti stradali dismessi e il signore che elemosina spicci e attenzione al semaforo di via Candia, mentre prende a testate un pallone da calcio.

Il bello e il grottesco, Roma e la somma del bene e del male. Dal mio appartamento vedo bene San Pietro e un rom rovista nel cassonetto della carta. Ma Roma non si discute, si ama. Gli amici di sempre trovano impensabile lasciarla. “Cos’altro cerchi? Roma ha i suoi difetti, però viviamo nella città più bella del mondo”. Questa frase ricorrente ha avvelenato le mie esteti trascorse a leggere autori lontani e cozzava con quello che avvertivo dentro di me.

Io ho 25 anni, vengo da Roma, ma non so dove vado. Adesso ho un biglietto di sola andata per Londra, di nuovo. Quello che sto per iniziale è il mio quarto Erasmus, sì il quarto. Ricordo la spregiudicata ingenuità della mia vita prima dell’Erasmus, la fanciullesca convinzione che il futuro fosse lontano e facilmente calcolabile.

In questi 5 anni lontana da Mamma Roma sono stata una filosofa ritardataria all’Università di Warwick, una giornalista finanziaria che non conosce i numeri in Irlanda, un’insegnate di italiano simpatica a Cracovia, una stressata studentessa di management che ancora non capisce i numeri a Barcellona. Sono stata e sono diventata questa Alessia e cento altre e adesso diventerò un’assistente marketing nel cinema e chissà cos’altro ancora. Ne ho fatte di strade e di biglietti in questi 5 anni.

Mentre mi avvicino al gate per la mia prossima vita, una madre apprensiva con figlio mi rimanda ai moniti della mia, inframezzati dalle sue lacrime malamente celate dietro gli occhiali. “Stai attenta, mi raccomando, evita i luoghi affollati, non dare confidenza”. Come siamo diverse io e lei.

Quando nel 1987 il programma Erasmus concepiva una generazione di viaggiatori senza sosta ne frontiera, lei, sposandosi e legandosi a Roma, decideva di creare il proprio mondo sicuro, a sua immagine e somiglianza. Così buffamente creò anche me, la sua antitesi.

Per lei l’Europa è una mappa sul libro di geografia di mio fratello, un confine blu astratto che racchiude perigli in ogni dove, ma il cui epicentro è un terzo piano con vista San Pietro. Per me l’Europa è una famiglia allargata piena di sorelle e fratelli che non sono simili a me e che pure sono uguali a me.

“Con tutti questi stranieri stai attenta però!”. Mamma, ma anche io sono straniera, anche io sono “l’altro” da lui e da lei. Ripenso al viaggio a Cracovia l’estate scorsa, la valigia carica di abiti confusi dal clima sconosciuto e la testa piena di ansie. Non ero mai andata oltre quel muro distrutto nell’ ’89, quando ancora non esistevo; non ero mai andata nell’ “Est Europa”. A Roma un’amica mi aveva salutata dicendomi “attenta ai polacchi, quella è gente cattiva”. Ancora riecheggia nella mia testa insieme a risa che non trattengo più. Arrivata in Polonia ogni mio timore lasciò spazio alla felice, occidentale e un po’ paternalistica constatazione di essere in un Paese più sicuro e tranquillo di quello da cui venivo. I ragazzi di Cracovia mi accoglievano con calore e curiosità, mentre io condividevo la mia cultura e la mia lingua. Era già accaduto in Inghilterra e poi di nuovo in Irlanda, ma ogni volta, quell’amalgamami col mondo nuovo che incontravo, mescolava ingredienti segreti alla “mia” ricetta. L’Alessia che portavo nei miei viaggi era sempre più ricca di storie e povera di pregiudizi. “Gli irlandesi sono sempre ubriachi” e il mio ragazzo Josh è astemio. “I catalani sono chiusi e nazionalisti” e la famiglia che mi ha accolta ha voluto che insegnassi loro l’inglese. “I musulmani odiano le donne” e il mio amico Zeyd raccontava divertito a Cracovia della cotta della sorellina minore per un compagno di classe. A Roma, nella mia confort zone, la vita era troppo facile per essere piena. Ero così padrona degli spazi e delle situazioni che vivevo, da esserne ormai la schiava. Viaggiare mi ha mostrato l’Europa ma fatta scoprire me stessa. Io sono tutte le Alessia che posso essere e ogni persona che ha incrociato la mia traiettoria poco uniforme ha reso reali il mio potenziale e cancellato i preconcetti che la paura faceva prosperare. “La paura…e Londra allora?” Sì mamma, ho paura. Ho terrore dell’uomo, delle azioni senza volto e passaporto, ho paura del caos, ho paura del buio. Vivere l’Europa significa scoprirla in ogni suo aspetto, col suo incanto e col suo orrore. Come vittima e come carnefice. Come Roma, anche l’Europa è un cosmo di contraddizioni e armonie che mi atterriscono e meravigliano insieme. Il timore dell’ignoto c’è, ma il desiderio di scoprirlo anche. Se il tempo delle guerre è tornato, sono pronta a combattere l’atrofia delle menti, con l’attività senza sosta delle mie gambe e dei miei occhi curiosi di crescere e avidi di diventare. Ormai vedo il Tamigi mamma, non avere paura prima, non so dove vado ma sono pronta a scoprirlo. Un giorno te lo racconterò. A presto.

 

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Chiara Landini

Click.

Il nastro è inserito nel registratore, indietro non si torna. Sono un po’ nervosa, aggiusto la posizione sulla poltrona. Per un folle attimo provo l’impulso di fuggire via, di lasciare nello scrigno i mille profumi che hanno incorniciato i sei mesi più intensi della mia vita. Ma è troppo tardi, già catene composte da strofe e risate mi legano alla sedia. “Coraggio, lasciare tutto indietro e andare…”. Un Cremonini spensierato mi sussurra all’orecchio, quasi una carezza sulle guance bagnate di lacrime. Ormai la mia auto scalcagnata e quei quattro pazzi che avevano fatto nottata pur di accompagnarmi sono poco più che formiche da quassù. Chiudo gli occhi perché nessuna immagine dovrà inquinare l’uragano che, partito dal mio stomaco, travolge tutte le barriere che mi ero costruita in ventidue lunghi anni di vita. E all’improvviso pioggia, vento, l’olezzo della metro che impregna ogni centimetro dei miei ricordi. Neanche ventiquattro ora in terra belga e vorrei solo il calore e il profumo di mia madre. “Sì, tutto bene il viaggio papà, si sta benone qui, solo un po’ di pioggia”. Rivedo nello schermo il riflesso di una ragazzina impaurita che si chiede se tra tutti quei grattacieli riuscirà a ritagliarsi un angolo di avventura.

Il primo raggio di sole ride con un accento napoletano. “We, io sono Rossella. Ma che è sto fridd? Agg’ accatta ‘u maglione!”

La tensione si scioglie come neve al sole. Evapora la pioggia e le opportunità iniziare a brillare come germogli dopo il temporale. La vita con tutta la sua prepotenza si dispiega davanti ai trenta ragazzi che hanno deciso di rinunciare al bidet per capire cosa ci fosse di buono al mondo a parte le lasagne alla norma. Amsterdam, Rotterdam, Berlino. Non abbiamo abbastanza occhi per guardare tutto, siamo affamati di tradizioni locali e souvenir. Un norvegese, tre spagnoli, un lettone, una portoghese e un paio di italiane. Quello che sembra un incipit di una barzelletta è invece la famiglia acquisita più incredibile che potessi avere. C’è chi cucina (Rossella); c’è chi ricerca la storia anche nel più piccolo borgo (Rossella); c’è chi è in ritardo a ogni appuntamento (sì, sempre Rossella). Nello schermo si alternano i riflessi delle immense vetrate della biblioteca centrale con i bagliori prodotti dalle luci del treno in arrivo. Ogni sera si gioca a regalarsi una parola, sperando che tra una cerveca (o una cerveza, lo spelling non è dato sapere) e l’altra saremmo diventati tutti babilonesi. E poco importa se il mal di testa del mattino seguente cancella ogni sforzo, la sera successiva saremo ancora più agguerriti. Il weekend poi si apre contemporaneamente cartina geografica e portafoglio, per capire quale avventura ci aspetterà di lì a poche ore. è così ridicolo e distante il concetto di “confine”. Ritrovarsi con gli occhi di dieci nazionalità diverse a guardare lo stesso quadro è l’inizio di scoperte ammalianti.

Novembre 2016.

All’improvviso la luce si spegne, tutto si ferma. Veniamo invitati da addetti alla sicurezza ad abbandonare lo stadio dove è in corso Belgio-Italia, il perché ci sarà chiaro solo vedendo militari schierati all’ingresso della metro. Giungono voci di esplosioni, centinaia di morti. Dall’alto del mio letto a soppalco osservo Beatriz, la mia coinquilina, cercare disperatamente notizie di una sua amica in Erasmus a Parigi. La sento piangere, urla frasi che il mio tandem alcolico non mi consente di tradurre. Non ce l’ha fatta, è rimasta intrappolata nell’infernale assurdità del Bataclan.

Poi cinque giorni di sospensione. Sopra il nostro tetto si nascondono cecchini; le melodie che abbellivano la Grand Place sono state sostituite dal rombo dei blindati che pattugliano ogni viale. E nel vortice dell’oscurità in cui stiamo penetrando, il Destino sceglie di sferrare il suo colpo più basso. Mio nonno si spegne nella notte del 6 dicembre 2016, a migliaia di chilometri dal mio pianto. Mi accascio all’angolo di una strada, semplicemente è tutto troppo. Non so se passano minuti o ore, per me non esiste altro posto che quel lampione lavato dall’immancabile pioggia di Bruxelles. Chiudo gli occhi desiderando solo di essere assorbita dall’asfalto e quando li riapro c’è una figura familiare a porgermi un ombrello. Rudi, il norvegese di ghiaccio, e nel suo abbraccio, il primo abbraccio in quattro mesi, trovo la forza di alzarmi. “Torna, cosa fai lassù da sola”. La mia famiglia mi manca da fare male, ma quel “da sola” non esiste. Come una rete di sicurezza nel momento della caduta, i miei amici, non importa di che nazione, si prodigano per far riaccendere quel sorriso che in realtà è stato tolto anche a loro. C’è Sofia, la bulgara che mi porta a correre al Parlamento Europeo; c’è Tom, uno svedese che mi cede una bottiglia del suo liquore preferito; c’è Beatriz, che mi prepara ogni sera tortillas. E infine Rossella e il suo abbraccio prima di dormire, capace di scacciare tutti i demoni da sotto le coperte. Io non sono mai stata “da sola”. Chi mi viene a parlare di “comfort zone”, non ha idea di che voglia dire crescere in una famiglia che parli venti lingue diverse.

Click.

La cassetta, dopo avermi regalato la cartolina del nostro ultimo viaggio insieme, viene sputata fuori a malincuore dal registratore. Il sorriso agrodolce che mi taglia ora il viso rientra nel gioco della ‘Sindrome post-Erasmus’.

Non ho tempo per le definizioni, c’è un altro progetto, un’altra valigia che mi attende: Grenoble, Francia.

 

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Chiara Lanza

Agosto 1941

“Per un’Europa libera e unita” era il titolo scelto per il manifesto redatto con quella cura, quello slancio, quella passione che possono nascere solo da un forte sentimento di speranza, da una tensione verso la libertà e la pace. Negli occhi dei firmatari, immagini di guerra, ricordi intrecciati con la paura, con l’indignazione per un esilio forzato. Ma l’incertezza verso il futuro fu allora motore, spinta verso l’incontro e l’unione di intelletti tutti tesi verso in unico obiettivo: guardare oltre la situazione contingente, gettare le basi per un’Europa sicura, dove non aver timore della nazione vicina. Era il Manifesto di Ventotene.

Agosto 1967

Festa di paese. Agli occhi ridenti di Emma, bambina di appena 10 anni, le trebbiatrici parevano grandi come case, i campi sotto il sole di mezzogiorno erano oceani piani di ricchezze e le montagne somigliavano a giganti buoni. Le montagne…sì, quelle montagne che vedeva ogni mattina aprendo le finestre, ogni pomeriggio aiutando sua madre nell’orto, ogni sera sedendosi, affaticata ma soddisfatta, nel cortile della sua casa; quelle cime erano il suo limite, circoscrivevano la sua zona di sicurezza. Proprio quel giorno, nel clamore della festa e tra gli scoppi di risa dei suoi amici che la invitavano a tuffarsi nel fieno, Emma seppe che ormai avrebbe osato valicare quei nobili giganti sempre incappucciati di bianco. Il suo mondo era lì, racchiuso in una valle, tra i fratelli e i cugini che neanche riusciva a contare talmente erano numerosi. Questo paese è vita, questo paese è pace – si diceva Emma. Lanciò l’ultimo sguardo pieno d’amore alle vette lontane e, colma di energia ed entusiasmo infantile, corse all’inseguimento di due amiche che ballavano, ebbre di gioia, tra le spighe di grano.

Agosto 2017

Ciao mamma, io parto. Per 20 anni ho visto quelle stesse montagne che tu, bambina, credevi di amare. Anche io, come te, ho messo qui le mie radici. Anche io, guidata forse da una memoria ancestrale, mi perdo in cerca di quei campi dove tu correvi libera. A volte trovo strade, a volte cascine abbandonate, altre affondo le mani nella terra fertile, umida, pronta ad accogliere nuova vita, e sono felice. Io valicherò quelle montagne mamma, non avere paura per me. La mia casa è qui, ma so che c’è un mondo pronto ad accogliermi e forse allora chiamerò “casa” anche quel piccolo paese tra le foreste nordiche dove mi sto dirigendo. Mamma, non ti preoccupare, i miei brividi non saranno causati dal freddo, ma da un senso di vertigine per quante altre montagne potrò vedere; e allora te le descriverò tutte, una per una. Sarò i tuoi occhi, pensa a quante cose ammireremo allora insieme! Città nuove, volti sconosciuti, paesaggi sterminati. Tu in me, come io sono stata in te, cammineremo insieme e percorreremo chilometri e chilometri in cerca di nuove “case”, di nuove montagne, e quanta strada avremo sempre davanti a noi, infaticabili pellegrine!

Il mondo fa anche paura, lo so mamma. Tu credevi di vivere in una valle di pace, ma la pace è innanzitutto dentro di noi ed è nostro dovere portarla di paese in paese, di villaggio in villaggio. M pare di vedere davanti a me, fermi e sicuri, gli occhi di coloro i quali, confinanti a Ventotene, firmarono il celebre manifesto. Quegli occhi, mamma, mi hanno dato un compito. Sì! Proprio a me! A me come a milioni di giovani. Ci hanno chiesto di costruire ciò che loro avevano osato immaginare e poi progettare; un’Europa libera e unita. Ma perché solo l’Europa? Noi, insaziabili viaggiatori, vogliamo il mondo intero!

Ora come allora ci pare di sentire nuovamente i fischi delle bombe e ritorna in noi una vaga e diffusa paura che, talvolta, annichilisce le menti. È questa paura che io, anzi noi, vogliamo combattere; ma le nostre armi non saranno fucili e granate, saranno la cultura, la curiosità, l’entusiasmo e quello stesso amore per quanto ci circonda che tu mi ha insegnato. Io lotterò, mamma, e per lottare valicherò non solo queste montagne ma tante altre, sempre in cerca di qualcosa, sempre in cerca di qualcuno. Sarai mia compagna di viaggio e sconfiggeremo insieme ogni timore che proverà a bloccarci la strada.

Dopo più di 75 anni possiamo ancora dire, con gli ideatori del manifesto, che “la via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà!” Ciao mamma, io parto.

 

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Giorgio Di Bonaventura

Cara M.,

possiedo un ricordo, chiuso in una scatola nascosta in un luogo molto remoto e profondo del mio cuore. Un ricordo che oggi sembra un dipinto sbiadito, in attesa di essere restaurato. Il dipinto è il ritratto di una ragazza dai capelli color grano, gli occhi di ghiaccio ed un sorriso che vale un tramonto. Ricordo di un bacio sulle rive di un fiume, di una barca bianca cullata dalle onde, di un amore trasportato dal vento. Se queste parole dovessero risvegliare un sentimento antico come il mare, ti prego, contattami.

Ti aspetterà sulla riva di quel fiume.

J.

Cos’è la paura? È una sensazione che si aggrappa all’anima, cercando di nutrirsene. Nessuno sa per quanto a lungo può rimanervi attaccata. C’è chi dice una vita intera, chi invece afferma con decisione che non è difficile sbarazzarsene. John non la pensava così. Non adesso per lo meno. Seduto sulla sua vecchia scrivania, con in mano una penna ad inchiostro, buttava già quelle poche righe in una lettera indirizzata ad una donna che un tempo aveva conosciuto. Nonostante la guerra, nonostante il nuovo mondo fosse così duro e proibizionistico, l’ama: cinquantenne “ragazzone” americano temeva soltanto una cosa: che lei avesse dimenticato, che tutto ciò che era accaduto in quella fantastica esperienza Erasmus di trenta anni fa fosse andato perduto per sempre.

La Terza guerra mondiale non aveva soltanto spezzato molte vote, aveva distrutto un mondo completamente globalizzato. Si è tornati ad un secolo fa, quando la connessione internet non esisteva e le libere frontiere erano utopia. John conosce i rischi nello spedire la lettera. Si è affidato ad una persona che contrabbanda illegalmente qualsiasi cosa oltre i confini; sa bene che rischia grosso, ma non gli importa. L’unica cosa a cui riesce a pensare è lei. È viva? È sposata? Si ricorda di lui? John questo non lo sa. Per puro caso ha rinvenuto tra vecchie cianfrusaglie l’indirizzo della casa in cui lei viveva a Kaiserslautern, una piccola città nel sud-est della Germania. Sperava davvero che fosse rimasta li per tutta la durata della guerra, poiché la Germania non era stata colpita duramente quanto gli altri Paesi Europei.

“John, è pronta la cena”.

“Arrivo subito, amico”.

Marco era bravo a cucinare, anche prima di tutto questo. John ricordava bene quelle squisite pietanze che l’amico preparava alle feste dell’ESN, la vecchia associazione studenti Erasmus. Da bravo italiano, la pasta era la sua specialità, la stessa che ora John aveva davanti a sé, sul vecchio tavolo malandato su quale cenavano lui e Marco ogni sera, cercando conforto.

“Stavo pensando ad Albacete, ricordi?” disse John, inforcando i primi spaghetti.

“È difficile dimenticare il miglior periodo della mia vita, John. Ricordo ancora il giorno in cui presi il volo, nonostante la mia maledetta paura di volare e di trovarmi negli aeroporti con tutti quegli attentati”. Mandando giù il primo boccone, continuò sorridendo: “Credo sia stata una delle migliori scelte della mia vita, se non avessi accettato non ti avrei mai conosciuto e non avresti potuto salvarmi la vita in battaglia. A proposito, non l’ho dimenticato…un giorno mi sdebiterò”.

John lo guardò perplesso ed indicò il piatto: “Se continui a cucinare così, giuro che ti mollo per strada e cerco un altro cuoco”. Marco rise per almeno un minuto, poi ribatté: “Le materie prime non sono quelle di una volta, smettila di lamentarti”.

“Lo so amico, stavo scherzando. Passami lo scotch, o almeno ciò che ne rimane”. Si riempì il bicchiere, e fece lo stesso con quello di Marco, poi aggiunse: “Pensi che dovrei mandarla quella lettera?”. “Perché no? Cos’hai da perdere, vecchio caprone. Abbiamo già perso tutto, quella potrebbe essere l’unica cosa a guarirti l’anima, potrebbe farti tornare a dormire come un bambino, com’era un tempo”.

Marco non aveva tutti i torti; sebbene conoscesse i rischi della cosa, incitare l’amico ad intravedere uno spiraglio di luce nelle tenebre gli sembrava la cosa più appropriata. John lo guardò pensieroso, tracannò lo scotch e disse: “Mi aiuterai ad attraversare il confine? È un lungo viaggio fino ad Albacete. La aspetterò nel posto in cui la baciai per la prima volta, lo sai sono un romanticone”.

“Lo sai che ti aiuterò sempre, John. Ti chiedo solo una cosa in cambio”.

“Qualunque cosa”.

“Lasciami finire quello scotch”.

Era rimasto il solito ubriacone conosciuto in Erasmus.

 

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Maddalena Armellini

Parte I - Adi

“Adi”, in ebraico, significa “gioiello”. È un nome diffuso, sia maschile sia femminile. “Adi” è una sillaba, ma viene pronunciato in modo inusuale per un Europeo - come se avesse allo stesso tempo due accenti, uno più marcato sulla “i”, uno più dolce e rotondo sulla “A”. La protagonista di questa breve, intensa frazione della sua stessa vita ha tratti sottili e raffinati, mediorientali, che si accompagnano ad una certa pesantezza in fondo allo sguardo. Come una nostalgia che neppure la più fragorosa risata riesce a scalfire.

Adi è israeliana; e, come tanti dei suoi connazionali, sa che corre una certa differenza tra questo e dire “Vengo da Israele”. In queste affermazioni è raccolto il dramma di un popolo che - per definirsi - ha avuto bisogno di identificarsi con uno stato, costato migliaia di vite umane e tuttora scosso dalla paura e dal sospetto verso il prossimo.

Quando - dopo due anni di servizio militare obbligatorio nel suo paese e uno speso viaggiando attraverso il Sudamerica - ha deciso di lasciare la sua famiglia e la bella, ampia casa in un quartiere residenziale di Tel Aviv, Adi aveva 24 anni, il sogno di diventare medico, e 3 passaporti.

Oltre a quella israeliana, infatti, ha altre due cittadinanze: Francese e Rumena. Di quest’ultima le rimane solo un profondissimo affetto verso la nonna paterna, fuggita decenni prima alla volta della terra promessa. Dalla prima, però, Adi ha ereditato una perfetta padronanza della lingua, nonché i libri preferiti da bambina e le due ninnananne.

Nel 2013, un voluminoso zaino sulle spalle e la chiave dell’appartamento appena affittato in mano, Adi approda in Italia per studiare medicina - un percorso che si rivelerà insegnarle molto più che semplici diagnosi e trattamenti.

Parte II - In Italia

Ha un gruppo di amici curioso, Adi: una polacca, un tedesco, una francese, un irlandese e - beh, naturalmente - una italiana. Il legame che li unisce valica qualsiasi definizione nazionale - e, pensate un po’, non sono neppure in Erasmus.

Adi, in realtà, è la più ponderata ed accorta tra loro - a nessuno viene in mente di guardarsi le spalle ogni volta che si entra in uno spazio chiuso ed affollato, come ai concerti. Nessuno capisce perché lei cambia strada ogni volta che accompagna il cagnolino a cui bada. Fanno fatica, loro, ad immaginare cosa voglia dire avere un minuto, dal momento in cui suonano le sirene, per trovare riparo. Non hanno la più vaga percezione di che cosa sia la guerra.

Parte III - In Francia

Adi adoro l’Europa; paradossale che siano sempre “gli altri”, i non europei, a percepire l’Europa come un’unità e non un’entità frammentata e divisa. Adi adora l’Europa perché è così facile viaggiare, immergersi in realtà differenti, passare da una cultura ad un’altra nell’arco di un espresso su rotaia. Certo, non è disillusa - anzi, la sua esperienza di vita in Israele le permette di cogliere le avvisaglie di problemi che si abbatteranno a piena forza su un continente non più abituato a rinunciare alla sua libertà, democrazia, facilità. Adi ha deciso che - nonostante si fosse appena costruita un nido confortevole in Italia - voleva di più: così si è candidata per l’Erasmus in Francia, ottenendo il posto. I mesi a Parigi rimarranno indelebili nella sua memoria - con tutti coloro che li hanno resi tali, rendendola parte di un inarrestabile flusso d’energia; ma anche con questi avvenimenti che consacreranno l’anno del suo Erasmus alla storia: gli attentati al Bataclan, al quartiere ebraico; le manifestazioni, i comizi nazionalisti, la paura. La decisione, sua, come di tanti coetanei, di combattere il terrore sul suo stesso campo: uscendo, divertendosi, ballando, gridando “io sono libera!”.

Parte IV - la Libertà

Sarebbe scontato se Adi, in quell’anno a Parigi, avesse conosciuto il suo futuro marito - e, infatti, Yuval è un ragazzo israeliano, che l’ha seguita in Italia per amore. Ma quello che racconterà ai suoi figli non avrà toni meno entusiasti. Adi si rende conto che i suoi amici - conosciuti in Italia e durante l’Erasmus - rimarranno il ponte che collega il suo innato sospetto e scetticismo alla voglia di sfondare i confini e di varcare i propri limiti. Adi, in Italia. era già in Erasmus - si era abbandonata allo stupore di interagire in una lingua comune con realtà più disparate, e di poter trasmettere - a sua volta - curiosità e riflessioni su quel suo mondo che le pareva tanto distante e ineffabile, per chi non fosse israeliano. Ad Adi ho insegnato una delle mie citazioni latine preferite: “Caeli non oculi mutant, qui trans mari currunt”. Lei mi ha risposto che “Viaggiare è il primo passo verso la conoscenza”. In arabo.

 

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Matteo Macciò

«Arréstati dinnanzi a quel confine:

nascosti, i signori del terrore

preparano di là la nostra fine.

Tu torna qui: la morte non dà onore.

 

Adesso, la mano, chiudila a pugno:

il tempo di tenderla ora è passato.

Ci hanno cullati: la pace era un sogno.

Adesso le bombe ci hanno svegliato.»

 

«È vero, forse il sogno è finito.

Quei pugni stretti coprono il tuo viso.

Anch’io ho paura: anch’io sono umano.

 

Ma oltre il muro che hanno costruito,

in mezzo ai volti senza più sorriso,

c’è uno studente: mi tende la mano.»

 

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Paolo D'Agosta

Confronto generazionale

Lorenzo, scuro in volto e sovrappensiero, chiuse la porta d’ingresso dietro di sé e abbandonò lo zaino su una sedia. Claudia alzò lo sguardo dai documenti sparsi sul tavolo e, in mancanza del consueto “Buongiorno”, osservò attentamente il figlio per qualche istante; infine, esordì con un cauto “Tutto bene?”.

«No, non va affatto bene» rispose Lorenzo, emanando un palpabile sconforto intorno a sé.

«Non hai saputo? Ieri c’è stato un altro attacco terroristico, a Nizza.» «Sì, ero ancora sveglia quando hanno trasmesso la notizia», disse Claudia. I silenziosi e inquieti occhi di Lorenzo vagavano per la stanza, senza trovare appiglio. «Davvero triste», mormorò flebilmente.

«È senza dubbio una notizia tragica, ma non è tristezza quella che ti leggo in faccia», rispose la madre. «Sei preoccupato, cos’è successo?»

«Oggi ho ricevuto conferma dall’università, sono stato selezionato per l’Erasmus. A Grenoble».

Un timido sorriso al contempo mesto e nostalgico si accennò sulle labbra della madre, mentre in un momento la mente le si affollò di ricordi del suo Erasmus a Siviglia, quasi 25 anni prima. L’attimo e il sorriso vennero e sparirono ma lasciarono il segno: «Se sei preoccupato perché pensi che non ti farò partire, non esserlo.»

Interdetto, Lorenzo alzò lo sguardo con espressione perplessa. «No, sono preoccupato perché è il terzo attentato nel Paese in cui dovrei andare tra pochi mesi. Tu no?» «Certo che sì, ma questo non ti impedirà di fare una delle esperienze che, per me, è stata tra le più intense, appaganti e formative della mia vita.» Lorenzo era sbalordito. «Ma io non voglio più partire», farfugliò confusamente. «Ho paura. È troppo pericoloso.»

«Un attentato può succedere ovunque, anche qui a Milano…»

«Così non mi aiuti a scacciare l’ansia, tutt’altro. Pensavo avresti cercato di farmi ragionare e di non farmi partire. Di solito è questo che fanno i genitori.»

«Appunto, se non sono io a frenarti, perché frenarti da solo?» Dopo qualche pesante secondo, necessario per raccogliere le idee, Claudia riprese a parlare: «Un Erasmus non è un semplice viaggio concreto, per studiare all’estero e per fare festa, è molto di più. È un viaggio interiore, che ti obbliga a far scoppiare la tua bolla di familiarità, ad uscire dalla tua comfort zone e affrontare il mondo; è un viaggio alla ricerca di una visione, impossibile da apprezzare appieno se ci si lascia confinare dalle linee immaginarie tracciate sulle mappe. È un gradino della crescita personale e dell’arricchimento culturale che oggi, in questo mondo sempre più incline alla multiculturalità, è fondamentale per diventare parte attiva del progresso, invece che un ostacolo. E non lasciarti ingannare dalle sterili retoriche dei populismi moderni: il futuro non sarà la paura, la divisione, il nazionalismo; quelli sono reliquie del passato che prima o poi scompariranno. Solo l’integrazione e l’interculturalismo possono garantire un futuro di pace e prosperità, accettando le diversità altrui e in parte farle proprie. “Unità nella diversità” è il motto dell’Unione Europea e l’Erasmus ne è l’espressione: vivere in un contesto multiculturale ti farà capire che, seppur diversi, in fondo siamo tutti uguali. Cent’anni fa l’Europa era in guerra, oggi siamo sulla strada dell’unione politica. La gente ha quindi l’oggetto della propria xenofobia verso l’Africa e il Medio Oriente, perché il diverso fa paura se non lo conosciamo, se non lo capiamo. Ed è questa la paura a cui porta il terrorismo; perché ci rende deboli. Sarà compito della tua generazione risanare questi strappi, e l’Erasmus è un importante tassello nella vostra formazione. Oggi, più che mai, ogni studente che parte è uno schiaffo al terrore. Ovviamente, la decisione ultima spetta a te, ma sarei molto felice se anche tu fossi uno schiaffo al terrore.»

Gli occhi di Lorenzo erano cambiati: decisi, motivati, avevano una luce completamente nuova. Fece a sua madre una sola domanda: «Come fai ad essere così sicura del futuro, così sicura di non essere dalla parte sbagliata della storia?» «Certezze non ne ho, Lore. Quello che so è che, se mi sbaglio, farò tutto quel che posso per contribuire a cambiarla, la storia.»

Con un sorriso, Lorenzo si ritirò in camera, promettendole che ci avrebbe pensato. Ma se conosceva bene suo figlio quanto credeva, Claudia sapeva che lui aveva già deciso.