I vincitori della sesta edizione de "Il Tuo Erasmus con ESN" sono:
Paladino Emma - Alma Mater Studiorum, Università di Bologna
Sala Emanuele - Università Cattolica del Sacro Cuore, Sede di Milano
D'Aurizio Alessandra - Alma Mater Studiorum, Università di Bologna
Dell'Olio Maria Camilla - Università degli Studi G. D'Annunzio Chieti Pescara
Garneri Alessia - Università degli Studi di Bergamo
Di seguito, gli elaborati dei vincitori
Autore: Paladino Emma
“Ripensare al passato può essere strano” confessò Bianca più a se stessa che al suo interlocutore. “È una specie di artificio della memoria” continuò, usando una frase di Garcia Márquez su cui tanto si era interrogata da giovane. “È come si i ricordi belli venissero indorati e quelli più cupi addolciti”.
Raccontare della sua giovinezza le piaceva molto, ma quell’occasione era particolare.
Il suo interlocutore, un ragazzo poco più che trentenne, le aveva appena posto una domanda cruciale: “In concreto, che ruolo ha svolto nella sua vita l’Unione Europa?”
Ciò che per lui aveva un mero interesse storiografico, a lei toglieva il fiato.
Non poteva che iniziare a raccontare dalla vita in provincia. Quella, per quanto cupa, se la ricordava bene. Si ricordava bene gli anni prima dell’università, quando il mondo andava dalla spiaggia alla strada statale che segnava la fine di quel piccolo comune sulla riviera adriatica. Si ricordava gli sguardi spenti dei suoi amici d’infanzia la prima volta che, dopo tanto tempo fuori, era tornata.
Si ricordava anche -senza che fosse stato addolcito dal tempo-, il profondo turbamento che accompagnò la consapevolezza di saperli incastrati in qual triangolo mare, strat statale, campi di girasoli- che fino a poco tempo prima delimitava anche la sua esistenza.
A ripensarci, sembrava incredibile. A raccontarlo, suonava ridicolo. Era davvero esistito un momento in cui la vita delle persone iniziava e finiva nel luogo in cui nascevano?
“Era come se gli essere umani avessero avuto le radici!” aggiunse, per rendere meglio l’idea. Il primo dono che le aveva fatto l’Unione Europea era stato quello di farle capire che le barriere geografiche non esistevano.
“Il mondo, piano piano, mi si rivelava per quello che era: sconfinato, sorprendente, in attesa dei miei passi.” Il secondo tassello del racconto e della trama della sua vita, veniva da un discorso che le aveva fatto suo padre quando, scoprendo turbata il costo della in Nord Europa, aveva quasi deciso di rinunciare al suo Erasmus a Copenaghen. Anche quel dialogo se lo ricordava bene. “Vedi Bianca”, aveva iniziato, “non credo si tratti solo del tuo futuro. Credo che riguardi anche, e soprattutto, il tuo presente. Tua nonna era analfabeta, tuo nonno muratore: trent’anni fa il tuo destino sarebbe stato scritto nel giorno della tua nascita. Voi nati negli anni novanta avete avuto in dono una terra un po’ malandata: il terrorismo, la crisi economica, i nuovi nazionalismi, la paura. La consapevolezza che ognuno deve accaparrarsi quello che può e in fretta perché il benessere si esaurirà. Ma, insieme, avete un’arma che qualche visionario lungimirante ha scelto di regalarvi: potete, senza avere un progetto, riscrivere la strada delle vostre vite. Potete sperare di cambiare qualcosa. Questo vale tutti i sacrifici economici del mondo”.
Quando, nel 2025, il Parlamento Europeo aveva approvato lo stanziamento di maggiori fondi per il progetto Eramsus+, Bianca e suo padre avevano brindato in onore di tutte le persone che avrebbero ancora potuto riscrivere la proprio vita. La gioia e la commozione costrinsero Bianca ad interrompere per un attimo il racconto. Il ragazzo che l’ascoltava ne approfittò per prendere la parola: “All’inizio della nostra chiacchierata, mi ha detto che l’Unione europea ha segnato la sua vita in tre momenti importanti. Ad ora ne ha elencati due: la caduta dei confini geografici del mondo e la speranza di poter riscrivere la proprio vita. Qual è il terzo?”
L’ombra di un sorriso passò sul volto della signora. Nella testa, un verso di Ivano Fossati “…sono nato e sono morto in ogni paese”. Gli angoscianti ricordi della sua giovinezza -le frontiere chiuse, l’intolleranza religiosa, l’ipotetica fine di Schengen, l’omofobia, la paura del diverso- erano tutti sbiaditi. Guardò quel ragazzo che mai avrebbe saputo come il mondo aveva rischiato di diventare. “Il terzo momento è stato quando abbiamo capito che, in istanti diversi, stavamo scoprendo le stesse cose. Per ognuno di noi i confini crollavano, a ognuno di noi veniva data la possibilità di riscrivere la propria vita. Tante vite riscritte insieme, senza più confini, sono la Storia. Noi eravamo la Storia.” Non parlava già più a nome suo. Mentre il ragazzo, con uno sguardo interrogativo, cercava di capire cosa intendesse, lei era altrove. Era a ridere sotto una tempesta di neve a Copenaghen, senza pensare al freddo. Era a rincuorare in un inglese stentato una sua amica francese. Era sul sito di Ryanair a controllare qualche eventuale offerta last minute. Era a tenere un comizio per un suo amico spagnolo sui minuti di cottura della pasta. E si immaginò tutte queste scene, ripetute milioni di volte, nella vita di milioni di persone diverse. I suoi milioni di fratelli che guardavano il mondo e ne calpestavano le strade. Pensò a tutti i confini spariti, a tutte le vite riscritte.
Pensò di nuovo all’ingenuo ragazzo che aveva davanti. Tutto sommato la sua generazione aveva fatto un bel lavoro. Con gratitudine pensò alla lungimiranza di chi aveva permesso tutto questo.
“È stata la nostra rivoluzione” aggiunse orgogliosa.
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Dopo cinquant’anni la “rivoluzione Erasmus” è considerata ufficialmente Storia; ed io, testimone di quell’evento, ero chiamato a raccontarlo. A raccontare la rivoluzione della mia generazione, ma anzitutto la mia rivoluzione.
Il 2018 fu un anno carico di significati, ricorreva infatti il cinquantesimo anniversario della contestazione giovanile, culminata proprio nel 1968, eppure in università, più si parlava di quegli eventi, più sembravano distanti: ai miei occhi, oltre che portatori di promesse non mantenute, avevano innestato nella storia tanta e tale delusione, da generare un disimpegno che si protraeva fino alla mia generazione. Il presente invece, avrebbe avuto bisogno del nostro impegno.
L’inizio del 2018 viene ricordato come il momento di più grande instabilità dell’ Unione Europea, di più profonda sfiducia nei suoi leader, date le continue tensioni tra paesi membri, che si credevano felicemente consegnate al passato. Globalizzazione, immigrazione e i loro effetti imprevisti stavano innescando una crisi senza precedenti; tuttavia i temi da affrontare erano così complessi, che il mio implicarmi in essi sembrava davvero superfluo. Io, poi, sarei partito per l’Erasmus a settembre; partito per Lisbona, la più periferica capitale europea, bagnata dall’oceano, che le offre una prospettiva ampia come il mondo e la possibilità di ignorare i problemi della vecchia Europa. Era il luogo perfetto dove dimenticare il mio comodo disimpegno ed evitare di guardare i problemi del continente. Se potessi trasmettere quanta e quale inconsistente chiusura le nostre società stavano respirando e diventando, l’entità degli avvenimenti successivi e del cambiamento che portarono, parrebbero ancora più straordinari. Nell’estate del 2018, infatti, ogni giorno nuove provocazioni tra i paesi fondatori turbavano l’Unione. Ognuna rifletteva e attribuiva la causa dei proprio problemi agli altri, in una generalizzata mancanza di assunzione di responsabilità. Reagimmo a questa situazione con una certa inerzia, in attesa di sviluppi, concentrati su altro, fino a quando la dichiarazione di un gruppo di capi di stato non diede l’impulso che serviva, nella maniera più scioccante. In una dichiarazione congiunta si affermava che la costruzione europea non aveva più senso di esistere e con lei i suoi progetti; sarebbe stata quindi avviata la procedura di recesso, decretando la fine dell’Unione Europea.
A quell’annuncio reagimmo dapprima con una sensazione di partecipe sconfitta, che si trasformò ben presto nel desiderio di cambiare direzione. Nel giro di pochi giorni in tutte le città europee si riversarono migliaia di giovani per far sentire la propria voce e dimostrare quell’unità di intenti che non si era mai vista. Era proprio come nelle vecchie foto del ’68 che avevo visto.
Davanti alla possibilità reale della fine dell’architettura europea, pur con tutti i suoi difetti contingenti, qualcosa si era risvegliato: eravamo nati europei, avevamo amici europei, con volti, storie e culture diverse, ma affini e avevamo in fondo lo stesso desiderio di essere comunità; non si poteva essere nemici, o peggio, indifferenti.
La promessa di cambiamento che quei giorni portavano venne mantenuta, la società, la politica e l’economia cambiarono radicalmente, decretando la fine dei vecchi stati nazionali, sostituita da un’Europa federale, multiculturale, aperta. La chiamarono “rivoluzione Erasmus” perché tutti i leader del movimento e primi promotori delle richieste erano stati coinvolti in un programma di mobilità: non era un caso. Ci si rese conto che l’Erasmus era stato il fondamento più solido dell’Unione Europea e una garanzia per la mia sopravvivenza, perché aveva permesso e permette tutt’ora di dare un volto e un nome ad un altro paese, ad un’altra cultura, di decostruire gli istinti di chiusura e rendere i confini, anche quelli interiori, permeabili. Da questa consapevolezza si ritenne prima priorità della rinnovata unione quella di estendere il finanziamento dell’Erasmus e permettere a tutti di vivere all’estero per un periodo, coinvolgendo studenti, giovani lavoratori e famiglie; questa politica si è rivelata il collante della nuova società europea. Quell’anno avvenne anche una rivoluzione personale: partendo nel settembre per Lisbona, capì cosa era successo. Nei giorni prima della partenza mi ero reso conto che la prospettiva di partire per un posto nuovo implicava anche superare la paura dell’ignoto per cogliere una opportunità più grande. Questa dinamica era la stessa che aveva dato spinta alle nostre domande di cambiamento: superare la prova dell’ignoto per cogliere un’opportunità più grande, anche nel rapporto tra essere umani.
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Titolo: Monologo di un’Italia che si crede malata.
Salve a tutti, non credo di avere bisogno di presentazioni. C’è chi mi conosce per fama, per la mia storia fatta di eroi, per il mio cibo delizioso, per i miei paesaggi suggestivi e per il mio popolo sorridente e rumoroso e c’è chi semplicemente a sentire il mio nome dice ammiccando: “Ah! Pizza, mafia e mandolino!” Si, sono proprio io, l’Italia.
Modestamente credo di essere la nazione più preziosa e particolare dell’intero pianeta. Sono, ovviamente, perfetta. Anche i miei confini lo sono. Ah. Tasto dolente. Volevo dire, erano, anche i miei confini ERANO perfetti. Dovete sapere, infatti, che fino a qualche tempo fa, meno di un centinaio di anni fa, ero l’unica a poter ostentare di assomigliare ad uno stivale, ero l’unica nel mio genere. Dico ero, perché le cose ad un certo punto hanno iniziato a cambiare, loro, sono diventati ingestibili. Sì, i confini, sto parlando dei confini.
Vi sembrerà strano, ma è andata proprio così. Dopo secoli, millenni, che mi prendevo cura di loro, tra guerre, terre irredente e invasioni, se ne sono andati via! Via da me! Nonostante tutta la mia fatica e dedizione per definirli, per tracciare una linea netta tra noi e gli ALTRI.
E loro come mi hanno ripagato? Hanno iniziato a dire che lì non ci volevano più stare, che oramai il loro compito era finito, che oramai erano “out”, fuori moda.
E lo sapete di chi è stata la colpa? Dei giovani, italiani, ma non solo. Dei giovani di tutta Europa, di tutto il mondo. Loro, con la loro futile voglia di scoprire, di essere “cosmopoliti” (ma che brutta parola è?), di conoscere nuove culture, di imparare nuove lingue e di incontrare persone nuove, diverse, hanno rovinato tutto il mio lavoro, ma non un lavoretto durato 5 mesi, ma millenni! Per quale motivo poi? Io ho già tutto quello di cui hanno bisogno, anzi gli ho dato anche di più, ma per loro non è stato abbastanza. Sì, mi sento tradita, molto. Il problema è stato che i primi che se ne sono andati (sciocchi) non mi hanno concesso la cortesia di tenere per loro, quella (uso parole che gli ho sentito dire) “strabiliante e irripetibile” esperienza, ma hanno dovuto comunicarla, condividerla o “ritwittarla”, non so bene come si dica. E non solo! Hanno addirittura deciso di creare associazioni e progetti per incentivare tutto questo viaggiare e spostarsi. Come quel programma lì, quello famoso, che inizia con la “E”…no non è Evanun…Erasmus, ecco si chiama così! Insomma l’obiettivo di questo Erasmus era ed è ancora (purtroppo) quello di far studiare, STUDIARE, all’estero i giovani.
E come se tutto ciò non bastasse, hanno anche creato dei fondi economici e dei contributi, per permettere a tutti, TUTTI, di poter fare quella (ricito) “strabiliante e irripetibile” esperienza.
All’inizio ero un po’ delusa, ma li ho lasciati fare. Bisogna lasciare andare chi non ti sa apprezzare no? Così ho fatto.
Mai avrei immaginato che tutto questo, che tutta questa loro enfasi, avrebbe portato a questo cataclisma. Ad uno, ad uno, tutti i miei piccoli confini se ne sono andati, spariti. Si sono infilati nelle valigie di quei giovani, tra sogni e speranze e non hanno fatto più ritorno. Vani, sono stati vani tutti i miei tentativi di convincerli a restare. Gli ho promesso mura, spesse mura; gli ho assicurato che non avrei più fatto uscire o entrare qualcuno; gli ho ricordato tutte le persone che hanno lottato, che sono morte per crearli, per difenderli.
Vano, è stato tutto vano.
Ed io da quel momento sento, ogni giorno che passa, le mie forze venir sempre meno, soffro di memoria a breve termine e ogni tanto crisi di identità.
Per farvi capire, oggi, 10 marzo 2078, alla domanda: “Ma tu come ti chiami?” Non ho risposto Italia, ho risposto, EUROPA. Cioè, capite?
Non mi ricordavo più chi io fossi, realmente. Penso, quindi, che un giorno di questi andrò dal medico. Se avete qualcuno da consigliarmi, uno bravo e soprattutto, italiano, fatemi sapere.
La cosa mi sta iniziando a preoccupare.
Ah e se vedete in giro uno dei miei confini, per favore, ditegli di tornare, che a me, mancano tanto.
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20 Aprile 2078
“A lei la parola”
“Grazie”
- 10 Febbraio 2018
Cami. Sono il tuo vecchio. Ti ho rubato questo diario fin troppo pittato per i miei gusti, se davvero appartiene a questo viaggio troppo lungo e pericoloso. Forse sono di antiche vedute, ma sai aprii gli occhi la prima volta nel lontano ‘38, tra la fine di una guerra e l’inizio di un’altra, ed ho paura. Ricordo ancora gli occhi dei tuoi nonni quando, in quegli anni, era impossibile attraversa ogni confine. Addirittura pericoloso uscire di casa. Ho 80 anni ormai. non vorrei che te ne vada per tutto questo tempo. C’è troppo odio in giro, troppe persone cattive. Ho paura di perderti.
Mio padre scrisse questa pagina qualche minuto prima di partire per l’aeroporto, ed io me ne accorsi solo quando l’aereo era già partito. La lessi decollando, ricordo perfettamente quella unica e sola lacrima che mi solcò i volto. Mi affacciai al finestrino e vidi per la prima volta mia Italia farsi sempre più piccola, salutarmi, accendendo le luci della bella Roma. Più di tutto però, ricordo la sua calligrafia. Queste pagine stampate non renderanno mai giustizia a quelle parole che con le mani ormai tremolanti scrisse con la tenerezza di un bambino e l’esperienza di un anziano. Le sue paure, però, non mi frenarono. Qualche mese dopo, gli scrissi queste pagine:
28 Giugno 2018
Sto tornando papà, sto tornando da te e dalla mamma. Sono nel posto più bello al mondo, sette kilometri a largo da Punta Umbria, all’estrema punto del molo che per sette kilometri viaggio nell’Oceano Atlantico. Ho deciso di scriverti queste pagine per cercare di concludere il mio diario nel migliore dei modi; un po’ come la musica nella tua vecchia cassetta che ascoltavamo nell’Alfa del ‘74. Sembrava così triste iniziando, ma finiva con quella melodia così dolce che ci riscaldava l’anima. La porto sempre con me, papà. Questo viaggio mi ha cambiato la vita. Lo sa bene, per anni ho cercato di trovare quel senso di appartenenza che non ho mai avuto. Ma io appartengo, papà, qui in Erasmus ho capito che appartengo a questa vita e a questo mondo. Ho condiviso la casa in cui ho vissuto con Francois, Oli e Danielle, imparando la cucina francese, la maniacale precisione tedesca e la gioia di Dani, che, al suo terzo Erasmus, porta sempre in giro con sé.
Nell’ospedale dove ho praticato la passione che la mamma mi ha trasmesso ho visto la persone soffrire e gioire allo stesso modo in cui soffre e gioisce ogni altro essere umano. Non ci riesco a vedere differenze tra le anime di un corpo bruno o chiaro, tra occhi sottili o grandi. Per me ha sempre contato l’essenza di ogni persona. E di una di queste, papà, mi sono innamorata. Nenmayez è nato qualche anno prima di me in India, ma è sempre appartenuto a tutto il mondo.
Ed io è così che lo vorrei tutto il mondo, senza confini, senza barriere, dove si può vivere nella pace di guardarsi negli occhi e concedersi la libertà di raggiungere ogni posto senza aver paura. E te lo prometto, papà, farò del mio meglio per raggiungere questo obiettivo.
Inizia a fare freddo ora, torno a Huelva per salutarla. Domani ti potrò riabbracciare. Ti amo immensamente papà, grazie per avermi dato la possibilità di scrivere il capitolo più bello della mia vita.-
“Che bel racconto! Non immagina che valore hanno per noi di “Fotogrammi del Passato” queste sue parole piene di speranza appartenenti a quegli anni. Una ultima domanda: lei ha avuto paura?”
“Grazie per il complimento. Questi scritti appartengono a sessant’anni fa; io e Nenmayez abbiamo una meravigliosa famiglia che ci considera uno spunto di vita molto importante.
Per rispondere alla sua domanda, beh... le dirò… Vivendo in quell’epoca la paura era un punto fermo, sempre presente, ma io ho voluto credere negli studenti Erasmus come me, ho creduto nell’importanza delle persone che hanno voluto credere in noi, mettendo a disposizione fondi e borse di studio e permettendo ad ogni studente di scoprire il mondo e rivoluzionarlo. Ognuno di noi, nel nostro piccolo, ha davvero partecipato alla realizzazione di questo mondo senza più barriere né confini.
Le voglio confessare un segreto: quando la paura venne a bussare alla mia porta, io mi feci coraggio e andai ad aprire sorridendo. Scoprii che dietro non c’era nessuno.”
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Capello grigio raccolto in una disordinata coda di cavallo, vestito floreale a sfondo bianco, un sorriso affettuoso che sapeva di casa e uno sguardo che racchiudeva un mondo magico di storie antiche. Ecco come Alessandra vedeva Alessia, la sua dolce bisnonna di 80 anni.
Alessandra vide la nonna in corridoio e le corse incontro. L’anziana signora, dopo aver stretto la bellissima nipote mulatta con gli occhi azzurri, che le ricordavano quelli del suo caro e oramai defunto padre, in un forte abbraccio, le chiese di accompagnarla a sedere sul divano. Accese la televisione. La bellissima ragazza di 17 anni chiese alla bisnonna in perfetto spagnolo: <<Qué miramos en Tv abuelita?>> e la nonna rispose in italiano con uno smagliante sorriso: <<Ti mostro la mia intervista nel documentario “Fotogrammi dal Passato” killa mia>>. La televisione cominciò a mandare la sigla del documentario.
La voce del presentatore iniziò a riecheggiare nella stanza in cui nonna e nipote stavano guardando la registrazione. <<Benvenuti signore e signori a “Fotogrammi dal Passato” oggi come ospite speciale è qui con noi Alessia.
Alessia è una delle 500 persone nel mondo ancora in vita che ha preso parte al progetto ESN. Oggi ci illustrerà come era il suo mondo prima della formazione della nostra società cosmopolita ed eterogenea dove, come tutti sapete, l’unione nella diversità è alla base dei rapporti tra gli uomini. Benvenuta Alessia.>>
<<Buongiorno e grazie di avermi invitata.>>
<<Prima di iniziare col suo intervento, avrei una domanda scomoda da porle.>>
<<Dimmi pure, le domande scomode non mi spaventano. E dammi pure del “Tu”.>>
<<Grazie mille. In che anno sei nata?>>
<<1998>> rispose con orgoglio Alessia.
<<Questo significa che hai 80 anni?!>> ribatté scioccato il presentatore.
<<Esattamente, ma io mi sento come se ne avessi 50, sarei pronta per la mia prossima avventura anche domani. Dovete dirmi solo a che ora ho il volo, la destinazione non mi interessa.>> Il pubblico scoppiò in una fragorosa risata e con lui anche il presentatore.
<<Bene Alessia, raccontaci un po’, come era la tua epoca? A cosa si riferivano i nostri nonno quando ci dicevano: “Ai miei tempi si aveva paura dell’altro?”>>
<<Sono grata di poter condividere un pezzo del mio mondo con chi non ha potuto farne parte, perché a parer mio capire da dove si arriva aiuta ad andare avanti senza continuare a fare gli sbagli del passato.
Vorrei iniziare il mio racconto partendo da qualche secolo prima che io nascessi, così da potervi dare un’idea generale del veloce declino e sviluppo successivo a cui la mia generazione ha assistito. In età rinascimentale si era soliti conoscere più lingue e tradizioni per poter avere interazioni economiche e sociali con altri stati, ma con l’avvento dell’industrializzazione i diversi stati non avevano più l’obiettivo di interagire tra loro, ma solo sovrastarsi l’un l’altro. Per farla breve questo continuo volersi imporre ha portato l’umanità alle due guerre mondiali. Soprattutto durante la seconda la paura dell’altro, del diverso e dell’ignoto ha portato gli uomini a compiere azioni che mai bisognerebbe pensare. Passata la guerra la paura era rimasta soprattutto nei giovani nati in quel clima di chiusura mentale. Solo per farsi un esempio: mio nonno (che riposi in pace) era convinto che i ragazzi dalla pelle scura non fossero in grado di capire il funzionamento di una smerigliatrice d’ottone perché stupidi e poco evoluti. Questa matassa di ignoranza, barriere e dogane si è via via sgarbugliata, anche se non completamente come siamo abituati noi oggi nel 2078, col tempo fino ad arrivare circa nel 2018, anno del mio primo Erasmus, quando il mondo era diviso in due filoni di pensiero: il primo, che rispecchiava il pensiero della maggioranza, era aperto verso le altre culture e il secondo, che pur essendo in minoranza, portava avanti il pensiero conservatore della generazione del secondo dopoguerra. Questi filoni di pensiero continuarono a scontrarsi fino al 2059, anno in cui anche l’ultima barriera cadde e iniziarono a sorgere le fondamenta della cultura che tutti oggi conoscete. È grazie ai miliardi di ragazzi che con coraggio hanno affrontato l’ignoto approdando in terre straniere così da poter capire le diverse situazioni che offriva un mondo separato dall’ignoranza, se oggi siamo liberi di scegliere la cultura che più ci sentiamo nelle vene.
La libertà di seguire ciò che il cuore comanda senza barriere né ostacoli è uno dei traguardi ai quali tengo di più perché mi riguarda personalmente. In un’Italia che rifiutava i migranti africani che scappavano la situazioni non umane nei propri paesi d’origine, io mi sentivo fuori posto, non capivo perché negare aiuto a delle persone, quando solo pochi decenni prima proprio gli italiani erano stati nella medesima condizione e con rotta verso il continente sudamericano. Io non mi riconoscevo in quel paese così chiuso e conservato. L’unica cosa che avevo a cuore era la lingua, così dolce e musicale. Il mio corpo e il mio cuore, però, gridavano Argentina. Non ho potuto iniziare la mia vita nel paese che sentivo mio perché per i miei familiari era un paese lontano e pericoloso, così “Diverso”. Ho frequentato l’università in Italia, riuscendo però a passare le selezioni per l’Erasmus in Spagna, senza naturalmente dire nulla a nessuno, almeno fino ad opera conclusa. Sapevo che se fossi riuscita a passare le selezioni sarei partita, perché nulla era più importante per la mia famiglia se non arrivare primi in qualcosa. È grazie alla mia esperienza se poi anche la mentalità dei miei cari si è aperta alla visione che io avevo già del mondo in cui avrei voluto tanto vivere.
Sono oramai convinta da anni che è solo grazie al programma Erasmus+ se siamo riusciti ad evolvere come persone e come civiltà debellando quell’ignoranza che ci attanagliava. L’esperienza Erasmus è la base per non aver paura di ciò che ai miei tempi veniva definirò come l’altro (appellativo che personalmente non ho mai capito, non vedendo io differenze tra le persone e le loro situazioni) questo perché viaggiando all’estero non come turista, ma partecipando della vita sociale della città lo studente Erasmus abbandona la sua condizione di nativo e si trasforma in quel “l’altro” di cui hanno tanto paura. Quando si provano le stesse sensazioni, le stesse paure, gli stessi timori e le stesse gioie di altri ragazzi o persone adulte che come te si sono lasciati la propria famiglia alle spalle e sono partiti con tanti timori, una destinazione e una valigia piena di speranze e sogni nulla può essere definito “l’altro”, ma può essere definito solo famiglia.
Il mio unico rimpianto è volto alle associazioni che, ai miei tempi, non erano riuscite a capire l’importanza di finanziare le borse di studio dei vari studenti Erasmus. La ricerca medica è sempre stata supportata da generose donazioni, perché nessuno ha mai guardato all’ignoranza come a una malattia mortale? Vi faccio un semplice esempio, vaiolo sta a vaccino come ignoranza sta a viaggiare. Se più associazioni o fondazioni avessero compreso questa semplice equivalenza e così facendo avessero creduto prima nella realizzazione dell’utopia che noi oggi chiamiamo realtà, questa si sarebbe potuta realizzare decenni fa risparmiando sofferenze ai ragazzi che come me non si sono mai sentiti nel posto giusto. Avere un dialogo interculturale profondo basato sull’avvicinamento e l’interazione di popoli distanti tra loro permette una convivenza civile su un pianeta che tutti chiamiamo casa, permette alle azioni degli uomini di essere volte al bene di tutti e non alla supremazia del proprio gruppo d’appartenenza.
In conclusione mi rivolgo ai ragazzi che forse stanno guardando quest’intervento. Vi prego continuate ad avanzare, bruciate ciò che è vecchio e che non sentite vostro perché non fa bene a voi e, se non fa bene a voi, non fa bene alla vostra società. Voi vivrete nel futuro che vi creerete risorgendo dalle ceneri dei nostri errori come delle bellissime fenici.
Continuate a viaggiare e comprenderete che la paura dell’ignoto si supera solo scoprendo le differenze tra ciò che conoscete e ciò che ancora non conoscete. Evitate i pregiudizi perché sono la base dell’ignoranza. Esplorate il mondo e conoscetevi tra di voi, solo così potrete avere cuori che battono all’unisono per un mondo senza barriere.>>
La registrazione viene messa in pausa prima che il presentatore ringrazi Alessia per il suo intervento. Alessandra con gli occhi pieni di lacrime guarda con affetto la bisnonna e abbracciandola le sussurra ad un orecchio: <<Grazie nonna per aver lottato per il mio futuro, ti prometto che mi impegnerò anche io per migliorare la tua opera. Non vedo l’ora di partire per il mio primo viaggio Erasmus+.>>
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